a cura di Paola C. Sabatini

«Alleniamoci a riconoscere la speranza, ci stupiremo di quanto bene esiste nel mondo»
Papa Francesco Bergoglio

Ancora una volta, la curiosità e la partecipazione a un evento organizzato dalla Fondazione Pera di Lucca mi hanno portato ad approfondire un tema piuttosto lontano dalla nostra quotidianità lavorativa: il lavoro carcerario.

L’occasione mi è stata offerta dall’invito a dialogare, nell’ambito del ciclo di incontri annuale dedicato alle letture sul lavoro, promosso dalla stessa Fondazione, sui contenuti del libro “Le dimensioni della dignità nel lavoro carcerario” insieme all’autrice, Francesca Malzani, docente di diritto del lavoro all’Università degli studi di Brescia, e a Giuseppe Fanfani, garante per la Regione Toscana dei diritti dei detenuti. Il confronto si è svolto all’interno dell’Oratorio degli Angeli custodi di Lucca, un luogo estremamente suggestivo ed evocativo, in uno splendido pomeriggio di primavera.

È un argomento complesso, quello del lavoro carcerario, perché suscita reazioni contrastanti; oggi,  il lavoro nelle carceri non viene più inteso come una componente afflittiva della pena da scontare, quindi con un’accezione punitiva  e di “lotta all’ozio”, ma ha assunto, dalla fine del secolo scorso, le caratteristiche di uno strumento utile al reinserimento sociale, volto a ricucire lo strappo che si è creato tra l’individuo e la società al momento del reato, un reinserimento che passa necessariamente attraverso il riconoscimento della dignità del lavoratore, sia pure svantaggiato in quanto detenuto o internato, del suo lavoro.

Ma quali sono le caratteristiche del lavoro carcerario?

Deve essere dignitoso, retribuito, non forzato, non punitivo, non discriminatorio.

Non è obbligatorio, dà diritto a ferie, ad assenze per malattia retribuite, a contributi assistenziali e pensionistici.

Se prestato nei confronti dell’Amministrazione penitenziaria può essere di tipo domestico (e riguarda tutti i servizi legati alla gestione quotidiana dell’Istituto carcerario: pulizie, preparazione dei pasti, facchinaggio, ecc.), di tipo industriale (nel senso che si producono, all’interno del carcere ma alle sue dipendenze,  forniture destinate a tutti gli istituti penitenziari a livello nazionale, come possono essere il vestiario, gli arredi, i corredi, ecc.) oppure agricolo (laddove negli istituti penitenziari sono presenti colonie o tenimenti agricoli e si svolgono attività come l’apicoltura, l’allevamento di animali e la coltivazione di ortaggi, verdure, vigneti, ecc.).

I detenuti che lavorano alle dipendenze dell’Amministrazione percepiscono, tuttavia, una retribuzione pari ai 2/3 di quanto stabiliscono i contratti collettivi nazionali del lavoro, trattamento che viene maggiorato periodicamente con provvedimento del Ministero della Giustizia ma che non segue automaticamente l’adeguamento agli aumenti retributivi decisi in sede di rinnovo della contrattazione collettiva di settore. Tant’è che l’ultimo adeguamento risale al 2019 nella misura dell’80% dell’aumento previsto dal ccnl di riferimento.

Il lavoro alle dipendenze di esterni

Sul solco della c.d. Legge Gozzini del 1986, destinata a favorire il lavoro all’esterno, si innesta la c.d. Legge Smuraglia del 2000 che introduce, invece, norme volte a favorire l’attività lavorativa dei detenuti, prevedendo sgravi contributivi e crediti d’imposta per le cooperative o le imprese che assumono o svolgono attività formativa nei confronti di detenuti, oltre ad integrare la lista dei soggetti ritenuti ‘svantaggiati’ e che, se assunti, permettono ai datori di lavoro di accedere a tali benefici. Il lavoro alle dipendenze di esterni può essere di tre tipi:

  1. assunzione di detenuti o internati in attività produttive all’interno degli Istituiti Penitenziari
  2. assunzione di detenuti o internati ammessi al “lavoro all’esterno” ex art. 21 dell’ordinamento penitenziario
  3. assunzione di detenuti o internati alla misura alternativa della “semilibertà” e/o dell’affidamento in prova al servizio sociale

Purtroppo, i benefici che accompagnano queste tre tipologie di lavoro subordinato – in particolare, lo sgravio contributivo del 95% e, in taluni casi, del 100% –  non operano sic et simpliciter ma privilegiano i rapporti di lavoro alle dipendenze di cooperative sociali oppure le attività lavorative organizzate dalle imprese ma all’interno del carcere. E siccome spesso è impossibile organizzare attività lavorative interne, per motivi strutturali, di spazi insufficienti o che non garantiscono la sicurezza nei luoghi di lavoro, soprattutto in quegli Istituti di pena che non consentono ampliamenti in quanto ubicati all’interno delle città , si spiega, almeno in parte, la scarsa diffusione di assunzioni di lavoratori ammessi al lavoro esterno e/o in semilibertà o affidato in prova ai servizi sociali.

Oltre alle agevolazioni contributive, è previsto un credito d’imposta  (€ 520,00 al mese), alle stesse condizioni di cui sopra (ovvero, privilegiando le attività produttive all’interno del carcere, quando si tratti di imprese), il  quale ha lo “svantaggio” di non attenuare il costo del lavoro nell’immediato, ma solo a chiusura dell’anno d’imposta cui si riferiscono i rapporti di lavoro e previo esperimento di una lunga e farraginosa procedura. La durata dello sgravio contributivo è di 18 mesi, nel caso di lavoratori all’esterno, di 24 mesi, nel caso di lavoratori all’interno. Ciò vale anche per il credito d’imposta.

Cosa si deve fare per poter fruire degli sgravi/benefici fiscali e/o contributivi?

Occorre stipulare una convenzione tra il datore di lavoro e l’amministrazione penitenziaria, l’assunzione deve essere fatta per un periodo non inferiore a 30 giorni, il trattamento economico da applicare è quello previsto dai contratti collettivi di lavoro (senza la decurtazione di 1/3); le agevolazioni sono cumulabili con altri benefici ammissibili e sono riconosciuti anche alle imprese che svolgono attività di formazione professionale, sempre che siano in possesso del Durc ed abbiano assolto a tutti gli adempimenti in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro.

Al termine dell’incontro lucchese, l’auspicio di tutti è stato che siano promosse maggiormente, da parte di tutti i soggetti competenti a farlo, politiche attive di accompagnamento e reinserimento al lavoro di quei soggetti per scoprire, tra le altre cose, le loro effettive competenze (il detenuto, prima di diventare tale, probabilmente svolgeva un’attività lavorativa, per esempio), ma anche per poter accedere a forme di lavoro alternative alla pena, soprattutto quando si tratta di detenuti condannati per reati minori ai quali il magistrato di sorveglianza concederà più facilmente l’accesso al lavoro esterno, o che siano in prossimità di uscire dal carcere, per arginare, da un lato, il sovraffollamento delle carceri e destare, dall’altro, la speranza di un futuro possibile. Utopie? Può darsi.

Anche in quell’occasione, il ruolo del Consulente del lavoro è stato riconosciuto come irrinunciabile, in quanto professionista di riferimento per quelle le imprese che potrebbero accettare di scommettere su una tipologia di lavoratore decisamente sui generis, soggetto a restrizioni, e per le politiche attive di cui sono attori, attraverso la Fondazione Consulenti per il Lavoro, che mirano a promuovere una cultura di inclusione, virtuosa ed efficace.

Come sempre, chi volesse saperne di più, sa dove trovarci!

 

 

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